Trovare un professionista sanitario competente e rispettoso delle diverse identità non dovrebbe essere una sfida, eppure, per la community LGBTQIA+ in Italia, l’accesso alle cure spesso riserva insidie e ostacoli determinati da discriminazioni e pregiudizi. Questo crea un percorso complicato, spesso invisibile a chi non lo vive sulla propria pelle.
Per comprendere l’entità del problema, Pagine Rainbow ha condotto una survey coinvolgendo le persone della community LGBTQIA+ su tutto il territorio nazionale. I risultati dipingono un quadro chiaro: l’inclusività nel sistema sanitario italiano non dovrebbe essere considerata un lusso ma trattata come una necessità urgente e ancora largamente insoddisfatta.
Numeri che parlano chiaro
Dei rispondenti alla survey rivolta alla comunità LGBTQIA+ nella sua interezza, il 47% ha dichiarato di aver avuto difficoltà concrete nel trovare professionisti sanitari rispettosi della propria identità di genere o orientamento sessuale. Un ulteriore 32% ha risposto “Non so”, suggerendo un’incertezza di fondo che porta molti a evitare di rivelarsi per paura di discriminazioni.
All’interno dell’ambito sanitario, le aree più critiche includono:
- Ginecologia
- Medicina generale
- Servizi specialistici
- Endocrinologia
- Salute mentale
Problemi ricorrenti
Quando chiesto quali difficoltà specifiche hanno incontrato nei servizi sanitari, i rispondenti hanno segnalato:
- Mancanza di conoscenza delle tematiche LGBTQIA+ (65%)
- Atteggiamento giudicante o discriminatorio (58%)
- Inadeguata sensibilità verso esigenze specifiche (42%)
- Rifiuto esplicito di erogare il servizio (8%).
Il peso dell’invisibilità forzata
Il dato forse più significativo riguarda il livello di comfort nel rivelarsi a un professionista sanitario: solo il 15% dei rispondenti si sente “molto a mio agio” nel dichiarare la propria identità. Il 52% si sente “poco” o “per niente” a proprio agio, preferendo spesso nascondere parte di sé pur di evitare discriminazioni.
Tra le testimonianze raccolte, emergono storie che vanno oltre le statistiche:
- Una giovane donna lesbica a cui è stato negato il Pap test perché, essendo stata solo con donne, era considerata “ancora vergine” dalla ginecologa.
- Un ragazzo transgender trattenuto 45 minuti da una dermatologa che ha trasformato la visita medica in un interrogatorio sulla sua scelta di transizione, dicendogli che “il femminismo è altro” e che “non serviva un maschio in più nel mondo”.
- Una donna bisessuale a cui un medico ha preteso di fare un test di gravidanza nonostante avesse una relazione stabile con una donna da anni e fosse certa di non essere incinta.
- Un ragazzo transgender a cui è stato negato l’accesso a visite ginecologiche necessarie perché “non doveva essere lì in quanto uomo”, senza che il personale si interrogasse sulle sue reali necessità cliniche.
- Una donna che ha cercato informazioni sulla prevenzione del papilloma virus nei rapporti tra donne, trovando completa ignoranza su profilattici femminili e dental dam, sia dal ginecologo che in farmacia e in consultorio.
Queste sono solo alcune delle testimonianze che abbiamo raccolto e che ci lasciano sbigottiti di fronte all’ignoranza e alla totale mancanza di sensibilità dimostrata.
Cosa cercano i pazienti LGBTQIA+
Quando chiesto quali caratteristiche rendono un professionista sanitario davvero inclusivo, le risposte sono state unanimi:
- Ambiente accogliente e non giudicante (92%)
- Formazione e competenze specifiche sui temi LGBTQIA+ (85%)
- Comunicazione chiara e rispettosa (78%)
- Politiche anti-discriminazione esplicite (65%)
- Testimonianze positive di altri membri della community (45%).
Il paradosso della ricerca di cure
Il metodo più utilizzato per trovare professionisti sanitari inclusivi resta il passaparola (68%), seguito dalla ricerca online con parole chiave specifiche (35%) e dalle associazioni LGBTQIA+ (28%).
Questo evidenzia un paradosso: in assenza di sistemi ufficiali di certificazione o elenchi affidabili nel sistema sanitario nazionale, la community si affida a reti informali, lasciando molte persone isolate e senza risorse, specialmente nelle regioni del Sud Italia dove la survey mostra maggiore difficoltà di accesso.
Perché ne parliamo
Il 98% dei partecipanti al sondaggio ha dichiarato che l’inclusività è “molto importante” o “abbastanza importante” nella scelta di un professionista sanitario. Non si tratta di un capriccio o di un’esigenza marginale: è una questione di salute, dignità e diritti fondamentali.
Rinunciare a cure mediche per paura di discriminazioni non è solo ingiusto, è pericoloso. Come emerge dalla survey, alcuni membri della community LGBTQIA+ hanno rimandato per anni visite preventive essenziali, con conseguenze potenzialmente gravi per la loro salute.
La voce di chi cura
Questa survey non è solo una fotografia del presente ma un appello al cambiamento. Per questo abbiamo deciso di dare voce a chi lavora in prima linea nel sistema sanitario: psicologi, ginecologi, endocrinologi, infermieri e oncologi che ogni giorno si confrontano con queste barriere e cercano di abbatterle.
Le loro risposte alle domande che seguono non sono solo testimonianze professionali, ma strumenti concreti per costruire un sistema sanitario davvero inclusivo. Perché nessuno dovrebbe avere paura di chiedere aiuto. Perché la salute è un diritto di tutti, senza distinzioni.
Gli intervistati




Diagnosi del presente
Quali sono le principali barriere che la community LGBTQIA+ incontra nell’accesso alle cure nel suo settore?
Risponde la dottoressa Bonadonna
A mio avviso, il problema principale è un problema di formazione. C’è un gap formativo sia per quanto riguarda le lauree che le scuole specialistiche poiché durante i percorsi formativi non vengono trattati i temi relativi all’incongruenza di genere.
Ad oggi purtroppo capita che dei colleghi che non sono formati su questi temi rifiutino in toto di farsi carico del paziente transgender. Personalmente mi piace pensare che tra i colleghi non vi sia malafede ma mancanza di preparazione verso questi temi.
Da anni quindi, cerchiamo di lavorare su un passaggio intermedio, che non riguardi quindi figure iper specializzate, per far sì che questo tipo di formazione possa giungere a tutti gli endocrinologi e agli specializzandi in materia. Ad oggi è utopico pensare che tutti gli endocrinologi si occupino di terapie affermative, magari possiamo augurarcelo per il futuro, ma ciò che possiamo fare è far sì che il paziente venga almeno preso in carico perché possa essere avviato al percorso più corretto.
Risponde il dottor Calemme
Direi che sostanzialmente sono due: la prima è legata alla fiducia che una persona della community LGBTQIA+ può trovare all’interno di una relazione di cura. Negli ambiti psicologici spesso si fatica a costruire un ambiente accogliente e affermativo per una persona non eteronormata, e questo può far sì che il paziente non si senta in un luogo sicuro mentre è fondamentale che tra paziente e terapeuta si crei una relazione, un legame di fiducia. Queste disattenzioni, che non sono indispensabilmente un attacco consapevole al paziente, e che in senso tecnico si definiscono micro-aggressioni, possono contribuire a creare esperienze spiacevoli e/o traumatiche, inibendo la possibilità che le persone chiedano aiuto.
La seconda riguarda, invece, la visione sociale che delegittima il senso di sé e di fatto l’esistenza delle persone, sia nella dimensione individuale sia in quella di coppia. Se sento di non essere legittimato ad esistere, di conseguenza non percepirò legittimo nemmeno il mio diritto alla cura. Tale fenomeno lo noto soprattutto all’interno delle terapie di coppia, dove solo negli ultimi anni arrivano maggiori richieste da coppie LGBTQIA+, che portano la propria esperienza per cui non pensavano che una cura per la coppia “fosse per loro”, ma solo appannaggio delle coppie eteronormate. “Se non abbiamo gli stessi diritti delle coppie eteronormate, tra questi non vi è nemmeno il diritto alla cura”, è questo spesso il vissuto.
Tra tutti i diritti che le persone hanno c’è anche il diritto alla cura ma se una persona pensa di non avere questo diritto, allora non prova nemmeno a cercarlo, come se fosse rassegnata.
Risponde la dottoressa Cortese
La non conoscenza della realtà LGBTQIA+ e quindi dall’uso scorretto dei pronomi al dare per scontato che una persona XX sia donna ed abbia relazioni con uomini o rapporti penetrativi o desiderio di gestazione per forza.
Risponde il dottor Sartini
Fortunatamente, nella mia pratica clinica non mi è mai capitato di assistere ad episodi di discriminazione diretta. Ma questo non significa che il problema non esista. Proprio perché non sempre la discriminazione è esplicita, è importante essere attenti e consapevoli anche verso quei gesti o atteggiamenti più sottili che possono far sentire una persona esclusa o non accolta.
Quale situazione di discriminazione o difficoltà l’ha colpito/a di più nella sua pratica clinica?
Risponde la dottoressa Bonadonna
Purtroppo, come dicevo prima, succede che alcuni specialisti rifiutino la presa in carico del paziente. Mi capita che arrivino da me dei pazienti che si vedono la visita stornata da altri colleghi che non sono formati in materia e che non sanno approcciare il paziente nel modo corretto, partendo banalmente dall’uso dei pronomi giusti.
Risponde il dottor Calemme
Ci sono due temi importanti; il primo è che quando si parla di coppie LGBTQIA+ ci sono alcuni stigma per cui si dà per scontato che si parli di coppie aperte o relazioni lascive che portano ad una dimensione dove l’impegno di coppia è meno considerato. Purtroppo questo bias l’ho riscontrato spesso anche nel confronto tra colleghi.
L’altro tema molto importante è legato alla genitorialità: le persone LGBTQIA+ faticano a pensare che la genitorialità sia un tema presente nella propria vita e nel proprio vissuto, a fronte del pensiero d’illegittimità della nostra società. Tale sguardo discriminatorio purtroppo inibisce non solo la possibilità pratica di una genitorialità, ma inibisce anche la dimensione del pensiero e del desiderio. Questo fa si che le persone LGBTQIA+ si stupiscano quando in terapia apro alla dimensione della genitorialità, chiedendo se è desiderata o se sia presente nei progetti futuri individuali o di coppia, impedendo purtroppo che i nuclei emotivi connessi a ciò trovino uno spazio di espressione, anche quelli connessi al dolore per un progetto tanto voluto ma non possibile.
Infine, rispetto alla discriminazione purtroppo ad oggi ancora c’è tanta confusione tra professionisti tra identità di genere, orientamento sessuale e espressione di genere, portando alla luce le lacune connesse alla formazione nell’ambito dell’identità sessuale.
Risponde la dottoressa Cortese
Ho visto mille volte uomini trans chiamati con il nome anagrafico (nonostante il passing perfetto). Mille volte donne lesbiche che si sono sentite rivolgere battute sul cambiare idea/non avere ancora provato rapporti eterosessuali.
Risponde il dottor Sartini
Fortunatamente, nella mia pratica clinica non mi è mai capitato di assistere ad episodi di discriminazione diretta. Ma questo non significa che il problema non esista. Proprio perché non sempre la discriminazione è esplicita, è importante essere attenti e consapevoli anche verso quei gesti o atteggiamenti più sottili che possono far sentire una persona esclusa o non accolta.
Errori che costano caro
Quali sono gli errori più comuni che vede commettere da colleghi non formati sui temi LGBTQIA+?
Risponde la dottoressa Bonadonna
Il discorso secondo me è semplice; l’endocrinologia del percorso di affermazione di genere in realtà è molto semplice perché ci sono pochi farmaci a disposizione perché a tutti gli effetti si tratta di una terapia sostitutiva. Non è la complessità della terapia il problema ma arrivare a prendersi in carico il paziente. In Italia siamo in pochi endocrinologi che si occupano di questo tema, potrei dire credo una ventina, e chi se ne occupa conosce già l’approccio corretto verso le persone LGBTQIA+.
Risponde il dottor Calemme
Considerare la dimensione sessuale come binaria ed eteronormata è uno di questi. Tale visione ha da una parte il vantaggio “cognitivo” di riuscire a rendere tutto maggiormente comprensibile e semplice, tuttavia non corrisponde alla realtà. Infatti la visione sociale eteronormata tende a delegittimare la complessità dell’identità sessuale di ognuno, che è da considerarsi più che come composta da categorie a tenuta stagna, composta da dimensioni fluide che possono compenetrarsi. Questo rende più complessa la realtà e la possibilità di confronto? Si, ma la realtà della nostra dimensione sessuale è complessa e come tale va guardata. Riuscire ad uscire dallo sguardo eteronormato non è semplice, perché ogni adulto ad oggi è cresciuto con le lenti del binarismo, pertanto siamo costretti a “nuotare contro corrente” rispetto a ciò che ci verrebbe automatico; l’auspicio è che le generazioni future invece possano nel tempo avere lenti di sguardo sul mondo maggiormente affermative della complessità.
L’altro errore che ho notato è la tendenza a patologizzare ciò che è al di fuori dell’eteronormatività. Ad oggi ancora rispetto a dimensioni sessuali LGBTQIA+ vi sono colleghi che cercano di trovarvi una eziologia patologica, piuttosto che cercare di comprendere in che modo lo sviluppo della persona sia andato in termini fisiologici e di esperienze di vita. È vero che alcuni quadri patologici possono sfociare in comportamenti o ideazioni di pensiero che tangenzialmente toccano il mondo LGBTQIA+, ma è dovere del professionista formarsi adeguatamente per una diagnosi differenziale: ad esempio ci sono quadri psicotici in cui una persona crede di essere del sesso opposto, ma questo sicuramente presenta caratteristiche ben differenti da un’identità transgender; da una parte c’è una credenza passeggera e di alterazione della realtà di appartenere al genere opposto, dall’altra c’è un senso di sé integro e costante di essere del genere non congruo con il proprio corpo.
Risponde la dottoressa Cortese
La totale non conoscenza delle terapie e dei cambiamenti fisici legati ai percorsi di riassegnazione; la non conoscenza delle ist più diffuse nelle varie popolazioni della comunità lgbt con gravi rischi conseguenti.
Risponde il dottor Sartini
Gli errori più comuni che mi capita di osservare/sentire non nascono mai dalla cattiveria, ma dalla mancanza di conoscenza e consapevolezza. Un errore, ed è quello a parere mio più frequente è quello di dare per scontato qualcosa sull’identità o sull’orientamento sessuale della persona assistita.
Possiamo prendere in esame anche la semplice domanda: “ha una compagna?” rivolta ad un uomo oppure “ha un compagno?” rivolta ad una donna. Vi faccio un breve esempio: poche settimane fa ho fatto io stesso una visita andrologica ed il medico mi ha chiesto “hai la morosa? Avete rapporti sessuali?” Sono dei piccoli automatismi linguistici che possono sembrare banali, ma purtroppo possono comunicare “non avevamo preventivato che tu potessi essere “diverso” da quello che si considera routinario”.
Un altro errore, al quale a volte mi capita di assistere, è quello di considerare tali tematiche come “temi delicati” quasi come un tabù, da affrontare con estrema cautela o da evitare quando possibile. Si rischia di creare un atteggiamento “super rispettoso” ma che crea distanza, come se non si volesse dire la cosa sbagliata. Il risultato però è l’opposto, si viene a creare una barriera comunicativa che crea a sua volta diffidenza e sfiducia.
Un cambiamento sistemico
Dottoressa Bonadonna, Le persone transgender segnalano lunghe attese e burocrazia complessa. Quali politiche sanitarie specifiche dovrebbe adottare l’Italia per garantire accesso tempestivo alle terapie ormonali?
Se ci fossero più centri che si occupano di questi temi le liste di attesa si ridurrebbero notevolmente. La critica in questo caso è che la presa in carico del paziente dura per tutta la vita; il nostro non è un intervento on-spot ma un percorso di cura che segue il paziente per sempre. Questo fa sì che le agende degli specialisti vadano in saturazione e non c’è una soluzione a questo se non l’apertura di nuovi centri e la formazione di nuovi specialisti in materia.
Per quanto riguarda la burocrazia è vero che è molta, ma questo è determinato dal fatto che i farmaci in questione sono farmaci off-lable e che seguono quindi un percorso che ha una sua complessità, controlli molto specifici ma è anche vero che questo consente la dispensazione gratuita dei farmaci che altrimenti peserebbe sul paziente.
Dottor Calemme, il 52% dei rispondenti si sente ‘poco o per niente a proprio agio’ nel rivelare il proprio orientamento o la propria identità di genere. Come dovrebbe cambiare la formazione in psicologia per affrontare questo problema?
Secondo me dovrebbe cambiare prevedendo di creare uno spazio per quei temi che riguardano l’identità sessuale in generale. Tutt’oggi arrivano nelle scuole di psicoterapia allievi che dopo gli anni universitari non distinguono orientamento sessuale e identità di genere. La società etero normata nella quale viviamo, dove si parla di maschile e femminile, non crea quell’apertura nel considerare identità sessuali più complesse. Manca totalmente la formazione rispetto a questi temi.
Dottoressa Cortese, dalla survey emergono gravi lacune rispetto alla salute sessuale delle persone LGBTQ+ (Pap test negati, ignoranza su protezione). Cosa dovrebbe cambiare concretamente nei protocolli ginecologici?
La formazione universitaria non può non prevedere la conoscenza delle terapie farmacologiche e dei percorsi clinici per i pazienti in riassegnazione di genere: i rischi sulla salute generale non sono di scarso rilievo; lo stesso vale per i fattori di rischio, divisi per popolazione, delle IST.
Ancora: gli screening sul tumore della cervice/test hpv devono essere chiaramente estesi anche agli uomini trans che conservino apparato genitale. La proposta di mammografia idem (non tutti effettuano top surgery). Insomma: c’è ancora molto da sistemare.
Dottor Sartini, cosa dovrebbe cambiare concretamente negli ospedali italiani (moduli, protocolli, formazione del personale) per garantire un’assistenza davvero inclusiva?
Il primo cambiamento deve avvenire agli albori del percorso formativo.
Non possiamo parlare di inclusione se chi lavora nella sanità non è stato educato al rispetto e alla comprensione di essa sin dalle basi. Serve un’educazione che parta dalle scuole, dove si insegni non solo l’educazione sessuale in senso biologico, ma anche quella affettiva, relazionale e identitaria, per formare futuri cittadini e professionisti più consapevoli.
Nel mondo sanitario, il primo vero punto d’intervento è la formazione universitaria.
Durante i corsi di laurea in Infermieristica (ma così come in qualsiasi professione sanitaria), dovrebbero essere previste lezioni obbligatorie e strutturate sulla salute e sull’inclusione delle persone LGBTQIA+, sull’uso di un linguaggio rispettoso, sulla comunicazione empatica e sulle specificità cliniche legate all’identità di genere e all’orientamento sessuale.
Oggi questi temi vengono spesso affrontati solo grazie alla sensibilità di alcuni docenti o in contesti facoltativi ma questo purtroppo non è sufficiente.
Un infermiere o un medico, o qualsiasi altro professionista sanitario, non formato su questi temi rischia di creare barriere, anche involontarie, che compromettono la qualità dell’assistenza.
A livello organizzativo, è necessario intervenire sulla modulistica e sulla burocrazia interna. Nella maggior parte delle strutture sanitarie italiane, i moduli di accettazione, i sistemi informatici e i referti sono ancora costruiti su un modello binario e rigido.
Anche i materiali informativi, le brochure e i questionari di anamnesi dovrebbero essere riscritti in modo più neutro e rispettoso, eliminando formule come “marito/moglie” o “uomo/donna” a favore di termini più inclusivi come “partner” o “persona assistita” ad esempio. Infine, servono protocolli chiari e condivisi che aiutino il personale a garantire un’assistenza equa e rispettosa, dal linguaggio usato all’accoglienza fino alla gestione dei ricoveri.
Come riconoscere un professionista inclusivo e cosa fare in caso di discriminazioni
Dottoressa Bonadonna, come può una persona transgender riconoscere un endocrinologo davvero formato? Quali domande fare e cosa pretendere al primo appuntamento?
Uno specialista inclusivo si riconosce da come si relaziona e si approccia al paziente, cominciando dal chiedere al paziente come desidera essere chiamato. Chi ha una formazione sul tema sa già come approcciarsi correttamente al paziente, chi non lo fa probabilmente non ha una formazione specifica.
Dottor Calemme, quali domande specifiche dovrebbe fare un paziente LGBTQIA+ al primo colloquio per valutare se uno psicologo è davvero competente su questi temi?
Credo che innanzitutto sia importante sostenere l’importanza che una persona possa informarsi sulla formazione e le qualifiche del terapeuta a cui intende affidarsi, purtroppo questo aspetto a volte viene confuso con diffidenza, ma io credo che parli di una tutela verso di sé. Poi è vero che all’incontro con un terapeuta è giusto giungere con una minima quota di fiducia. Questa come la costruiamo? A volte andando da terapeuti che ci vengono consigliati da persone di fiducia, per cui in modo transitivo ci fidiamo del professionista; a volte dalle informazioni raccolte anche solo su internet. Io non credo che una lista di domande specifiche che il paziente può porre al terapeuta aiuti a costruire una relazione di fiducia, quanto più penso sia importante che le persone possano legittimarsi a esporre al professionista se vi sono state parole, atteggiamenti o comportamenti che hanno fatto sentire poco a proprio agio, o che hanno anche ferito o infastidito. Questo è un passaggio essenziale perché permette ad ognuno di legittimare il proprio pensiero, e al terapeuta di riparare ad una crepa creatasi nel rapporto terapeuta-paziente. Inoltre far emergere le proprie fatiche legate proprio al rapporto con lo psicoterapeuta permette anche di potersi dire che quel professionista non è adeguato, cercando di rivolgersi altrove. Il rischio altrimenti è di protrarre, ad esempio, un percorso per mesi, se non anni, poco funzionale e nutriente.
Dottoressa Cortese, quali ‘red flags’ dovrebbero far capire a una persona LGBTQIA+ che una/un ginecologa/o non è preparata/o? E al contrario, quali segnali positivi cercare?
Esprimere pareri personali e giudizi. Usare il misgendering in modo sistematico. Dare per scontato il tipo di attività sessuale e l’orientamento dei e delle pazienti. Molti medici se non altro dimostrano buona volontà e raccolgono informazioni dai pazienti stessi ma non trovo giusto che un paziente debba fare il medico di sé’ stesso.
Dottor Sartini: cosa può fare concretamente un paziente LGBTQIA+ se si trova di fronte a discriminazioni in ospedale? Quali sono i suoi diritti e come farli valere?
Partiamo da un principio fondamentale: la legge italiana tutela ogni individuo, senza eccezioni.
La Legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, stabilisce che:
“La tutela della salute fisica e psichica deve essere garantita nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana.”
e che il SSN si ispira ai principi di:
• universalità (accesso per tutti),
• uguaglianza,
• globalità dell’intervento sanitario,
• partecipazione dei cittadini.
A questi principi si aggiunge l’articolo 3 della Costituzione italiana, che sancisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini “senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”.
Anche la Carta dei Diritti e dei Doveri del Paziente, ispirata alla Carta Europea dei Diritti del Malato, ribadisce il diritto a cure e trattamenti sanitari senza discriminazioni, nel pieno rispetto della dignità, dell’identità personale e della privacy. Se una persona subisce o percepisce un comportamento discriminatorio in ospedale, ha diritto di segnalarlo ed essere tutelata.
Prima di tutto bisogna documentare l’accaduto. Annotare data, ora, reparto, nome (se noto) del personale coinvolto, e ogni dettaglio utile. Se possibile, raccogliere testimoni o documenti che possano confermare l’episodio. Successivamente si può fare una segnalazione all’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP). Quest’ultima ha il compito di ricevere reclami, osservazioni e segnalazioni dei cittadini.
La segnalazione può essere fatta per iscritto, via PEC o di persona, e deve essere trattata in modo riservato e tracciabile. Ci si può anche rivolgere alle autorità competenti interne o esterne. A seconda della gravità del fatto, il paziente può contattare:
– il Direttore Sanitario della struttura,
– l’Ordine Professionale di riferimento del professionista coinvolto
– oppure, nei casi più gravi, presentare un esposto alle autorità competenti (ad esempio ai carabinieri).
Verso un futuro inclusivo
Qual è il cambiamento che spera di vedere nei prossimi anni nel sistema sanitario italiano per la community LGBTQIA+?
Risponde la dottoressa Bonadonna
Mi auguro che aumenti il numero di centri in grado di occuparsi del tema e non parlo solo di centri specialistici ma di consultori, di colleghi di altre specializzazioni come urologi che siano disposti a visitare le persone e chirurghi plastici, che siano in grado di approcciare i pazienti transgender in modo corretto e inclusivo.
Un altro passaggio che a mio avviso sarebbe utile, è che ci vorrebbe una normativa rispetto ai farmaci off-lable poiché la situazione attuale complica molto le cose. Questo però è un problema a livello mondiale, non solo italiano.
Risponde il dottor Calemme
Spero che un giorno possa venire meno il bisogno di essere specializzati in temi LGBTQIA+, perché il bisogno di tale specializzazione non nasce dal fatto che vi siano fattor intrinsechi all’appartenenza queer a creare sofferenza, ma al fatto che il disagio emotivo sia creato dallo sguardo della società verso la persona. La genesi della sofferenza non è interna alle persone, ma nel rapporto con una società eteronormata. Il sistema sanitario dovrebbe, come ogni istituzione sociale, cambiare le lenti con cui guarda le persone, eliminando l’accezione patologica con cui molti aspetti della comunità LGBT+ vengono trattati.
Risponde la dottoressa Cortese
Formazione di tutto il personale sanitario sul tema ed accesso agli screening/prevenzione previsti (pap test/hpv/vaccino hpv) per le persone XX qualunque identità di genere abbiano.
Risponde il dottor Sartini
Dal mio punto di vista, spero di vedere un cambiamento radicale nella formazione, perché è da lì che tutto può davvero cambiare. Solo formando professionisti consapevoli, preparati e capaci di comunicare in modo rispettoso potremo costruire un sistema sanitario che sia davvero inclusivo, in cui ogni persona si senta accolta e riconosciuta per ciò che è.
Un messaggio per chi ci legge e teme di cercare aiuto nella sua specializzazione per paura di discriminazioni.
Risponde la dottoressa Bonadonna
Esiste un portale dell’istituto superiore della sanità che si chiama INFOTRANS dove è possibile trovare tutti i servizi dedicati alle persone transgender in Italia. È un portale sempre aggiornato con informazioni davvero utili e preziose per la community. Consiglio di visitarlo per individuare le strutture migliori che possono occuparsi di questi temi.
Risponde il dottor Calemme
Quello che mi sento di dire è che purtroppo nessuno può garantire che non ci saranno più esperienze negative ma che sempre di più possiate pensare che è legittimo cercare un contesto di cura nel quale ci si senta a proprio agio e che se questo non accade è giusto poterlo dire. Il bisogno di cura è legittimo e deve essere espresso.
Risponde la dottoressa Cortese
La tutela della vostra salute è più importante di qualunque cosa: non fatevi rovinare la salute dalla paura.
Risponde il dottor Sartini
Non siete voi che dovete adattarvi al sistema. Avete e averte sempre il diritto di ricevere assistenza in maniera rispettosa, dignitosa e con competenza. La salute è di tutti. E sappiate che ci sono tantissimi professionisti competenti, sensibili e pronti ad ascoltarvi e prendersi cura di voi senza giudizio. Non rinunciate mai alla vostra salute, mai.
*NDR: questo articolo è il furtto di un lungo lavoro da parte della redazione di Pagine Rainbow. Ci teniamo a rignraziare tutti gli specialisti che ci hanno dedicato il loro tempo e tuttti i partecipanti alla survey che ci ha permesso di raccogliere dati preziosi per meglio fortografare la situazione attuale del nostro paese dal punto di vista della communuty LGBTQIA+.
